Disturbi dello spettro autistico: storia e nuovi approcci
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Disturbi dello spettro autistico: storia e nuovi approcci

 

 

Il 2 aprile è la Giornata Mondiale della Consapevolezza dell’Autismo, istituita nel 2007 dall’Assemblea Generale dell’ONU. La ricorrenza richiama l’attenzione sia sui diritti delle persone nello spettro autistico, sia sui vari cambiamenti di paradigma per quanto riguarda la concezione della scienza e dell’opinione pubblica sull’autismo.

L’autismo, o meglio denominato Disturbi dello spettro autistico, è un disturbo del neuro-sviluppo che coinvolge principalmente linguaggio e comunicazione, interazione sociale, interessi ristretti, stereotipati e comportamenti ripetitivi. In Italia, secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale per il monitoraggio dei disturbi dello spettro autistico, 1 bambino su 77 (età 7-9 anni) presenta un disturbo dello spettro autistico. Questi dati sottolineano la necessità di politiche sanitarie, educative e sociali atte a incrementare i servizi e migliorare l’organizzazione delle risorse a supporto delle famiglie (fonte: Ministero della Salute).

 

Un po’ di storia: da Bleuler al DSM-5

I termine autismo viene utilizzato per la prima volta dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler per designare la perdita del contatto con la realtà, con conseguente chiusura in un mondo radicalmente chiuso agli altri. (Bleuler Eugen, eugen-bleuler, Treccani)

Il primo a parlare di autismo su una rivista specializzata è Leo Kanner, psichiatra austriaco che nel 1943 pubblica l’articolo Disturbi autistici del contatto affettivo. In questa fase di studi Kanner studia l’autismo infantile precoce e deduce erroneamente che derivi  dall’educazione ricevuta e dal contesto sociale. Il bambino affetto da autismo è quindi per Kanner neurologicamente sano, e la causa della patologia è individuabile in un ipotetico "rapporto inadeguato" con la madre. Questa teoria, oggi ritenuta scorretta, ha dominato la scena clinica internazionale per più di vent’anni. (Wikipedia, Autismo)

Negli anni Settanta si inizia a indagare la componente genetica dell’autismo, mentre si ampliano gli studi, le metodologie e i punti di vista sul tema. Tali progressi portano a un ampliamento della classificazione di autismo all’interno della psichiatria infantile, fino al riconoscimento ufficiale nel 1980 della diagnosi di Autismo infantile all’interno del DSM III.

La definizione del DSM III risulta tuttavia problematica per la sua concentrazione sulla condizione infantile, non riconoscendo la persistenza delle difficoltà nel corso dello sviluppo. La questione viene rivista nel DSM IV del 1994, dove si parla di Disturbi Pervasivi dello Sviluppo. Questa definizione è più flessibile, comprende molteplici condizioni come il disturbo di Asperger ed è orientata allo sviluppo della condizione nel tempo.

Nel 2013 viene redatto il nuovo DSM V, dove tutte le molteplici sottocategorie vengono raggruppate in una sola categoria, chiamata Disturbi dello Spettro Autistico. L’introduzione del concetto di spettro autistico è una vera e propria rivoluzione nella  metodologia della diagnosi: invece di pensare a una lista di disturbi da spuntare, si concepisce una certa condizione clinica come un insieme di dimensioni che vanno misurate in termini di intensità.

 

L’importanza della diagnosi

Il DSM V, come già detto, è un importante cambiamento per quanto riguarda la definizione e la metodologia d’indagine per arrivare a una diagnosi. Lo spettro è definito come un insieme di disturbi dello sviluppo, raggruppati in due macrocategorie:

  • la difficoltà nell'interagire e comunicare con gli altri
  • la presenza di comportamenti, interessi o attività ristretti e ripetitivi, che comprende anche alcuni aspetti legati all’alterazione della percezione sensoriale. L’aspetto della percezione sensoriale è così importante che alcuni ricercatori tendono oggi a inserirlo come terza macrocategoria.

La diagnosi finale è caratterizzata inoltre da tre livelli di gravità, relativi al grado di supporto necessario nella vita quotidiana.

Nonostante la definizione di autismo sia cambiata nel tempo, diventando via via più flessibile e inclusiva, esistono alcune etichette e semplificazioni che sono molto difficili da cambiare.

“Gli autistici sono tutti dei geni, non sono empatici, non hanno amici e non comprendono le relazioni umane”. E ancora, “gli autistici sono perlopiù uomini”: i sintomi per lo spettro autistico femminile sono spesso molto diversi, e per questo la diagnosi a volte arriva tardi. Uno studio del 2012 ha infatti appurato come le donne abbiano spesso meno probabilità rispetto agli uomini di soddisfare tutti i criteri per una diagnosi, pur essendo affette in realtà da un disturbo equivalente. I ricercatori concludono che ciò avvenga sia per un pregiudizio di genere, sia per una maggiore capacità femminile di adattamento e compensazione dei deficit.

Ma soprattutto, si parla sempre di bambini, qualche volta di ragazzi, raramente di adulti. Come se l’autismo scomparisse crescendo. (Degano, 2019) Ricevere una diagnosi è infatti fondamentale per poter intraprendere un percorso utile e per dare un nome alle proprie caratteristiche e differenze. Sapere di non riuscire in qualcosa non perché si è incapaci, ma perché si è affetti da autismo è un grande aiuto. Ed è anche il primo passo per acquistare fiducia in se stessi, non sentirsi sbagliati e per cercare metodi e strategie alternative.

 

Nuovi approcci

Un altro stereotipo, che riguarda in generale il mondo della disabilità e, in maniera molto evidente, la percezione che si ha delle persone affette da autismo, è che spesso la diversità viene trattata solo come deficit e non come differenza. Attraverso questo punto di vista si costruisce l’intera narrazione, e gli autistici diventano soprattutto persone che non: non possono fare qualcosa, provare una data emozione, costruire un rapporto.

Jac Den Hounting è una psicologa, e ricercatrice presso la Macquarie University di Sydney, dove studia le disuguaglianze strutturali e sistemiche nella ricerca sull'autismo. A Jac è stato diagnosticato un disturbo dello spetto autistico quando aveva 25 anni,  “ed è stata la cosa migliore che mi sia capitata”.

 

 

Nei suoi studi la ricercatrice unisce la sua storia personale a idee più o meno nuove nel campo della psicologia, nell’ottica di spiegare perché dobbiamo ripensare il modo in cui capiamo l'autismo e, in generale, la diversità.

Il primo concetto che citiamo è il cosiddetto modello sociale della disabilità, concretizzatosi nella definizione dell’OMS di modello ICF: la disabilità non è solamente identificata dal deficit di un individuo, ma anche e soprattutto da come la società di riferimento reagisce a tale deficit.

Un'altra riflessione interessante è quella della cosiddetta doppia empatia, e parte dal una ricerca del  2019 compiuta da alcuni ricercatori dell’Università del Texas a Dallas. Lo studio ha coinvolto 125 adulti a cui è stato chiesto di interagire con uno dei partecipanti per 5 minuti. Tra di essi, a 77 era stato precedentemente diagnosticato un disturbo dello spettro dell’autismo.

Il risultato è che le persone autistiche si sono trovate più a loro agio e hanno rivelato più cose di sé ad altre persone autistiche, mentre i partecipati neurotipici hanno preferito comunicare con altri individui neurotipici. La domanda sorge spontanea: quando diciamo che le persone affette da autismo non hanno empatia, non sanno comunicare e costruire relazioni, da che punto di vista stiamo partendo? E se fossimo noi, neurotipici, ad avere una bassa capacità di interazione con una mente diversa?

Last but not least, le ricerche di Den Hounting si sono concentrate molto sul concetto di neurodiversità, paradigma creato per la prima volta dalla scienziata sociale Judy Singer nel 1998.

Per Judy Singer la neurodiversità è un sottoinsieme della biodiversità: come quest’ultima fa riferimento alla molteplicità di specie biologiche sul nostro pianeta, così la neurodiversità riguarda la variabilità neuro-cognitiva praticamente infinita all’interno della popolazione e l’unicità di ogni mente umana.

“Prendere sul serio la neurodiversità”, scrive Den Hounting, “significherebbe allo stesso tempo cambiare il modo in cui educhiamo la prossima generazione di scienziati che studiano l’autismo e esigere sostanziali cambiamenti nel mondo reale, rivedendo pratiche e istituzioni affinché siano sempre più utili e inclusive per le  persone autistiche”.

“Non si tratta di rigettare il paradigma scientifico tradizionale, che ha giocato un ruolo fondamentale nella conoscenza dell’autismo”, continua la scienziata: si tratta invece di riconoscere che la sua visione eccessivamente ristretta, basata solamente sui deficit provocati dall’autismo, non è più sostenibile”.